Intervista al professor Lorenzo Bertucelli, parlando di Public History tra Ravenna e Modena.
Dal 2015 all’Università di Modena e Reggio Emilia è possibile frequentare un master di secondo livello in Public History, nuova disciplina che in Italia va suscitando sempre maggiore interesse. Tanto che quest’anno la International Federation for Public History ha scelto Ravenna per il suo quarto convegno annuale. Contemporaneamente e contestualmente si è tenuta la prima conferenza nazionale dell’Associazione italiana di Public History che lì si è costituita.
In quanto veterani del master e professionisti della Public History, riceviamo molte richieste di informazioni dai nostri lettori e da chi frequenta le nostre iniziative. Alla vigilia della terza edizione, abbiamo girato le vostre domande direttamente al direttore del master, Lorenzo Bertucelli. Ed ecco com’è andata!
Professor Bertucelli, nello scorso mese di giugno, insieme ad altri docenti del master in Public History di Modena, ha partecipato al primo convegno dell’Associazione Italiana di Public History a Ravenna. In quell’occasione avete presentato il panel “L’insegnamento della Public History nelle università italiane”. Quali sono i problemi connessi all’insegnamento della disciplina nell’ambiente accademico italiano?
A Ravenna abbiamo toccato il problema di come si può legittimare l’inserimento della Public History quale disciplina di insegnamento nella università italiana. Abbiamo discusso delle specificità della Public History e quindi anche delle necessità peculiari che, a differenza di un corso di storia normale, servono per costruire un corso effettivamente utile e formativo di Public History. Ne avevamo già parlato nel seminario che abbiamo organizzato a Modena a marzo, quando abbiamo discusso del rapporto fra il pubblico e la storia e delle prospettive di formazione legate alla Public History. A questi temi si sono aggiunte riflessioni a cui siamo arrivati durante la scrittura del libro sulla Public History, che ho curato con Paolo Bertella Farnetti e Alfonso Botti.
Parliamo allora anche del libro appena pubblicato e presentato in anteprima l’8 giugno 2017 a Ravenna: Public History. Discussioni e pratiche (Milano-Udine, Mimesis, 2017). Perché leggerlo? Lo consiglierebbe agli aspiranti Public Historian?
Devo essere poco modesto: è il primo testo in italiano che, pur presentando una ventina di contributi, ha una certa organicità. Tra gli autori ricordo Thomas Cauvin, Maurizio Ridolfi, Angelo Ventrone, Claudio Silingardi, Cecilia Novelli, Enrica Salvatori, Adolfo Mignemi, Paolo Simoni, Eric Teyssier, Manfredi Scanagatta, Antonio Canovi, Michelangela Di Giacomo, Aldo Russo, Vittorio Iervese, Marcello Ravveduto e Marco Cipolloni. Come curatori, ci siamo sforzati di restituire un volume il più possibile coerente sui problemi e le discussioni di fondo che riguardano la Public History in particolare in Italia. Il libro tratta delle sue possibilità di applicazione, espansione, approfondimento e utilizzo professionale. L’introduzione è firmata da Serge Noiret, presidente dell’associazione italiana di Public History che si è costituita a Ravenna. Segue una prima parte nella quale si riflette sui contorni e sui metodi della disciplina, su come può essere insegnata e su come è possibile applicarla nella società italiana, anche in comparazione con l’esperienza anglosassone.
Nella seconda parte si trova una bella panoramica di casi concreti di lavoro, utile per capire quali sono i campi di applicazione della Public History: si va dalla storia di impresa alla storia orale, alla storia digitale, alla storia con la musica, al videodocumentario, ai filmini familiari, passando per la fotografia, il cinema… Si tratta di una panoramica abbastanza ampia, ragionata anche sulla base dell’esperienza che molti degli autori hanno fatto col nostro master in Public History, ma non esclusivamente. Ci sono infatti anche contributi di altri, storici e non solo storici, che non hanno lavorato con noi, ma che stanno ragionando su questi temi.
Agli aspiranti Public Historian ne consiglierei molto la lettura, perché è uno strumento secondo me utile per farsi un’idea su una disciplina giovane, che ha suscitato grandi aspettative. A Ravenna c’erano oltre 500 persone dall’Italia e dal mondo, con una grandissima partecipazione di giovani. Abbiamo bisogno soprattutto delle giovani generazioni per capire se con loro si può veramente trasformare la storia in una professione anche fuori dall’università.
Professor Bertucelli, dove si può studiare la Public History in Italia?
Per quanto riguarda i corsi universitari – corsi di laurea, master di primo o secondo livello – il master di secondo livello in Public History di Modena è l’unico in questo momento attivo in Italia.
Esiste un corso in Public and Digital History tenuto da Marcello Ravveduto all’interno del corso di laurea in Scienze della comunicazione all’Università di Salerno.
Lo scorso anno Cecilia Novelli, docente di Storia Contemporanea all’Università di Cagliari, ha attivato un “Laboratorio di Public History” nell’ateneo sardo.
Abbiamo sentito dire che ci sono progetti per istituire altre attività didattiche intorno al tema della Public History, che però non abbiamo ancora visto concretizzate: si parla di qualcosa che potrebbe essere attivato all’Università statale di Milano (la notizia dell’attivazione del master di primo livello in Public History di Milano è arrivata successivamente rispetto alla data di realizzazione dell’intervista NDR), di qualcosa all’Università Tor Vergata di Roma… Visto il grande successo della conferenza italiana di Public History a Ravenna, penso che nascerà qualche altra iniziativa. A noi fa piacere: il master di Modena non la vede come una concorrenza, ma come un consolidamento della disciplina nel nostro Paese, che ne ha bisogno. Se ci fossero davvero in Italia un paio di altre università che attivassero corsi di Public History – lauree triennali o magistrali o master – sarebbe utile per il consolidamento della disciplina.
Limitando il campo ai master universitari, a Bologna esiste un master in comunicazione storica: il master in Public History di Modena in cosa si differenzia?
A me pare che il master in comunicazione storica di Bologna sia incentrato prevalentemente su come si possono comunicare i temi storici utilizzando i mass media e le tecniche di comunicazione.
Anche il master di Modena tratta il tema della comunicazione, però lo inserisce in un percorso che ha una strutturazione più attenta alla metodologia della disciplina storica. Prende di più le mosse dal problema di come si può portare la storia in pubblico, cioè attraverso quali metodi, quali approcci, quali strumentazioni pratico applicative, per avere una relazione con il pubblico diversa da quella che ha normalmente lo storico professionale o, se volete, accademico. Su questo apro una parentesi: personalmente relativizzerei la differenza tra storico accademico e non accademico, perché se si vuole fare Public History la si può fare anche da una posizione di accademico, come dimostra il mio caso.
Quello della Public History è un approccio un po’ più largo, che tiene insieme la metodologia, l’applicazione pratica, il discorso sui linguaggi e soprattutto il discorso di costruzione e condivisione con il pubblico. In questo insieme ci sono anche gli aspetti che riguardano la comunicazione.
L’approccio della Public History si differenzia da quello di chi si occupa prevalentemente di comunicazione, per il fatto che tenta di negoziare e di mediare con il pubblico, con le sue memorie, con i suoi sguardi sul passato e di coinvolgerlo in un percorso comune, di ragionare metodicamente e storicamente insieme. Non necessariamente chi si occupa di comunicazione si pone questo problema, perché ha un obiettivo di efficacia comunicativa, anche top down. Senza voler sminuire l’aspetto fondamentale delle buone capacità comunicative che il Public Historian deve avere, la Public History è un approccio un po’ più largo rispetto a un approccio di scienza della comunicazione (di Public History e Popular History parliamo in questa pagina NDR).
Perché un neo laureato dovrebbe iscriversi al master di Modena?
Questa è una domanda che porta un carico di responsabilità non indifferente per chi risponde.
Conosciamo le difficoltà che ci sono nel nostro Paese per trovare sbocchi professionali negli ambiti professionali umanistici. La Public History può fornire degli strumenti aggiuntivi a un laureato in materie umanistiche, che ha un’attitudine a ragionare storicamente, che vede i problemi nel loro svolgersi nel tempo. Questi strumenti lo rendono più capace di intercettare domande diverse, che possono venire dalle comunità, dalle istituzioni locali, dalle imprese, da luoghi di memoria, musei e nuovi musei o siti storici. Possono dargli anche una capacità auto-imprenditoriale. Quando parliamo di un professionista che porta la storia in pubblico e media con le memorie delle persone, parliamo di qualcuno in grado di costruire progetti rivolti ad un pubblico il più delle volte non specialistico. Questo apre una gamma di attività che lo storico pubblico può provare a praticare.
Noi non diciamo che con un master in Public History, una volta discussa la prova finale, ti vengono a cercare a casa per darti un lavoro, ma sicuramente aumenti le tue possibilità di costruire relazioni e reti professionali, in cui provare a investire competenze nuove, anche abbastanza originali nel panorama italiano – il che non guasta – con qualche possibilità di lavoro in più.
E chi già lavora… perché dovrebbe farlo?
Per chi già lavora in questi ambiti – e aggiungerei anche quello dell’insegnamento, perché penso che la Public History abbia un’utilità anche per una nuova didattica della storia o una didattica declinata in modi originali nei rapporti tra docenti e studenti – penso che possa essere utile per dare maggiore consapevolezza e sistematicità a lavori che magari si fanno già, ma che non hanno a volte alle spalle una riflessione, una metodologia, un approccio meditati. Permette anche di creare ulteriori reti e possibilità di lavoro meno individuali, meno di piccoli gruppi. Il problema dell’attività di tanti istituti storici, luoghi, siti, piccoli musei è che a volte stentano un po’ a mettersi in rete. Il movimento della Public History e le competenze che si acquisiscono con questa disciplina danno anche la possibilità di lavorare in gruppo, costruire reti più grandi e migliorare qualitativamente il proprio lavoro.
Per iscriversi bisogna avere una laurea in storia o sarebbe comunque meglio averla?
È chiaro che parliamo di temi storici, però dobbiamo intenderci bene, perché la Public History nasce per intercettare le persone che hanno un desiderio, una necessità, una passione, una curiosità per il passato. Quindi non stiamo parlando di una domanda disciplinare di storia, ma di una qualche forma di rapporto con il passato. Di conseguenza, credo che non sia tanto necessario avere in tasca una laurea in storia, ma serve avere una formazione che ci abbia reso consapevoli dei fenomeni culturali e sociali e del loro cambiamento nel tempo. In altri termini, uno storico dell’arte, della letteratura, ma anche un laureato in Scienze politiche, se ha nel suo “bagaglio” l’attitudine a mettere i fenomeni nella diacronia, può utilmente usare gli strumenti della Public History.
Chiaro che bisogna avere la consapevolezza che se non ho una forte formazione di tipo storico, qualcosa in più dovrò studiare, soprattutto per quanto riguarda le acquisizioni più recenti della storiografia e i grandi temi che possono interessare le persone. Questo però non necessariamente si fa tutto in una volta, è un percorso, quello della Public History, che permette anche di acquisire gradualmente queste conoscenze, perché è un percorso che si basa soprattutto su un metodo, un approccio, una pratica applicativa.
La cosa più importante è avere la consapevolezza del cambiamento nel tempo dei fenomeni e che il passato è un grande contenitore in rapporto con il presente. Poi le competenze disciplinari si allargano cammin facendo.
Quindi anche lauree in filosofia, letteratura?
Sì, perché ad esempio un laureato in filosofia, che ha comunque un patrimonio anche di storia della filosofia, del pensiero, della cultura, può ragionare di Public History. E’ chiaro che, così come il letterato o lo storico dell’arte, dovrà acquisire conoscenze specifiche sull’attualità del dibattito storiografico. Ma una laurea non in storia non la vedo come un ostacolo, anche per l’esperienza che abbiamo avuto in questi due anni con studenti che non avevano un percorso da storici, ma che hanno brillantemente acquisito le conoscenze e i metodi che abbiamo fornito durante il master. Questo è stato vero anche per i geografi.
C’è chi dice che la Public History ha a che fare solo con la storia contemporanea e non con le altre epoche, è vero?
Assolutamente no, la Public History non è circoscritta alla storia contemporanea. La Public History riguarda tutto ciò che il nostro presente domanda al nostro passato, quindi è evidente che non riguarda solo l’epoca contemporanea. Può riguardare l’antica Roma così come le epoche medievali, come dimostrano peraltro tanti prodotti, più o meno seri, che vengono divulgati e proposti. Ci sono tanti temi che riguardano epoche passate che sono assolutamente connessi al nostro presente, come le riforme religiose, le guerre di religione, i grandi problemi di modernizzazione delle epoche medievali e moderne.
Non ci sono confini… Poi è chiaro che gli ultimi due secoli spesso suscitano più interrogativi da parte delle nostre società contemporanee, del nostro tempo presente. Però chi ad esempio fa archeologia sperimentale dimostra come si possa fare Public History anche a partire dai reperti archeologici. Tanto che abbiamo avuto anche archeologi, storici antichi e modernisti nelle nostre due prime edizioni.
Dopo due edizioni, avete ora accumulato un po’ di esperienza: sono previste novità per la terza edizione del master? In cosa si differenzierà dalle altre?
Avremo un insegnamento in più rispetto all’anno scorso, proprio sulle epoche storiche non contemporanee, ma medievali e moderne. Sempre restando nell’ottica della Public History, quindi discutendo di come si portano in pubblico e di che domande ha il pubblico su queste epoche.
Poi avremo un corso più specifico sul confronto tra storia e letteratura, che affronterà il tema secondo noi centrale del rapporto tra il vero e il verosimile, cioè di cosa c’è di diverso metodologicamente e di come si ragiona insieme al pubblico quando si racconta la storia con gli strumenti dello storico e quando si racconta la storia con, ad esempio, un romanzo. Si parlerà quindi di come si mette in relazione il vero e il verosimile in un romanzo storico e di come può essere uno strumento per raccontare insieme al pubblico un’epoca storica.
Per il resto la struttura del corso rimane abbastanza simile a quella delle altre due edizioni, perché ha funzionato abbastanza bene. Ci saranno quindi seminari che avranno protagonisti diversi, ma sempre legati ai grandi temi e ai linguaggi della Public History, professionisti da vari ambiti, dal teatro, al cinema, al web, alla letteratura, ai musei…
Quando comincerà la terza edizione?
Contiamo di partire a novembre 2017. Il bando per iscriversi uscirà a luglio e starà aperto quasi tutto settembre. All’inizio di novembre potremo cominciare, facendo attività didattica fino a metà aprile, in modo da avere poi tempo libero dalle lezioni per fare lo stage, che è uno stage importante di 325 ore, e per preparare la prova finale che sarà discussa a settembre 2018.
Nell’attesa che parta la nuova edizione, non annoiamoci con la solita storia: ecco per voi il rap della Public History presentato a Ravenna e nato all’interno del Master in Public History dell’Università di Modena e Reggio Emilia!
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