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Quando finiscono le vacanze invernali, comincio i preparativi per il Giorno della Memoria. Quella del 27 gennaio è una data che da quasi vent’anni segna il calendario civile della Repubblica italiana. Le istituzioni, le scuole e le associazioni si fermano per ricordare i drammi dell’universo concentrazionario nazista e fascista. Per chi si occupa di Public History, questi momenti sono preziosi, poiché permettono di suscitare riflessioni storiche nelle comunità. Nel confronto con certe pagine del passato si aprono, infatti, domande profonde e spesso scomode. Perché, sul finire degli anni Trenta, diverse società europee passarono dall’esclusione dei “diversi” alle persecuzioni, fino a compiere lo sterminio degli ebrei nella Seconda guerra mondiale? Quel processo storico era davvero inevitabile o si poteva fermare? E chi avrebbe potuto arrestarlo, o quantomeno provarci?
Sono questi gli interrogativi che, anno dopo anno, mi stimolano a cercare risposte tra le voci di “ieri”. Proprio nei giorni scorsi, preparando le attività didattiche e gli eventi delle prossime settimane, ho ritrovato una storia scoperta tre anni fa, durante le ricerche per il saggio Radici di futuro. È ambientata a Bazzano, il paese dove sono nato, e l’ho scoperta grazie a Gabriele Giunchi. A lui, scomparso pochi mesi fa, vanno la mia gratitudine e il mio abbraccio.
Bazzano e gli ebrei nella Seconda guerra mondiale
All’inizio degli anni Duemila diversi anziani di Bazzano ricordavano che, nel pieno della guerra, un gruppo di ebrei stranieri alloggiò in paese. Nessuno riusciva tuttavia a ricostruire i modi e i tempi della loro permanenza. Spinto dalla passione e dalla curiosità, Gabriele Giunchi cominciò a indagare. Partì dalle memorie dei testimoni e le incrociò con i documenti dell’Archivio Storico Comunale. Ne uscì la ricostruzione di una vicenda complessa e affascinante, che intrecciava l’Italia e la Libia, le truppe naziste e i diplomatici britannici.
Un gruppo di ebrei nella Libia fascista
La storia comincia a Barca (oggi al-Marj), una piccola città a sud-ovest di Bengasi, collegata al mare da un porto canale. Lì nei primi decenni del Novecento vive una piccola comunità di ebrei egiziani, attratti dall’opportunità di aprire esercizi commerciali. Gli israeliti convivono pacificamente con gli arabi e i berberi, passando attraverso il dominio ottomano e la prima fase dell’espansione coloniale italiana.
Gli scenari iniziano a cambiare fra il 1934 e il 1936, quando il governatore Italo Balbo si propone di italianizzare e fascistizzare la Libia. Il fascismo vuole trasformare la costa di Tripoli e Bengasi nella “Quarta Sponda” della penisola: partono le “spedizioni dei ventimila”, che trasferiscono famiglie di coloni nell’entroterra coltivabile. La propaganda del regime le esalta, anche se “spostano” molte meno persone rispetto ai viaggi d’inizio secolo verso l’Europa e l’America. I numeri dei colonizzatori sono ridotti, ma sufficienti a cambiare le strutture legali e sociali della Libia.
Quando le autorità impongono agli esercenti di mantenere aperti i negozi anche al sabato, gli ebrei incontrano le prime difficoltà. Sono, tuttavia, le leggi razziali del 1938 a complicare drammaticamente le loro vite: vengono esclusi dalle scuole, dal pubblico impiego e da tutti i mestieri strategici. Il governatore Balbo applica i provvedimenti antisemiti del regime, ma cerca di non infliggere colpi troppo duri agli ebrei libici. Nelle loro mani si concentrano le più importanti attività produttive della Tripolitania: internarli in campi di prigionia sarebbe un rischio per la stabilità economica.
Il fascismo e gli ebrei nella Seconda guerra mondiale
In un primo momento il regime accoglie le proposte del governatore. Ben presto, però, la Seconda guerra mondiale cambia radicalmente gli scenari del Nordafrica. Il 28 giugno 1940 Balbo perde la vita in un controverso incidente aereo. Di lì a pochi mesi, Mussolini decide di intraprendere campagne parallele agli attacchi della Germania nazista. Tuttavia i sogni imperiali del Duce svaniscono, poiché le risorse e i mezzi del Regio esercito non sono all’altezza del conflitto totale. Gli italiani sono costretti a chiedere aiuto ai tedeschi e, dopo aver perso l’Etiopia, lottano al fianco di Erwin Rommel per cacciare i britannici dall’Africa settentrionale.
I nuovi equilibri della guerra suggeriscono alle autorità fasciste di adottare una soluzione molto popolare presso i nazisti. Mentre le truppe dell’Asse combattono insieme, gli ebrei della Cirenaica vengono internati nel campo di concentramento di Giado. All’inizio del 1942, però, l’Italia fascista fatica a reggere il peso della fame e delle sconfitte militari. La disfatta sembra sempre più imminente, soprattutto nei territori libici. Le autorità del regime decidono quindi di deportare gli ebrei libico-egiziani dal campo di Giado a diverse località della penisola.
Una mattina, urlando come dei forsennati, ci fecero uscire di corsa dalle baracche. Il Maggiore urlava più di tutti e lo seguivano i carabinieri arabi. Era presto, le otto, più o meno. Soltanto gli uomini e i ragazzi, soltanto i maschi erano stati convocati. C’era gente che cadeva a terra, che correva mezza nuda perché non aveva avuto il tempo di vestirsi. Ci spinsero a malo modo verso il piazzale della bandiera. Erano arrabbiati, era chiaro per tutti, da giorni le cose non andavano più bene per gli italiani. C’era stata la battaglia e la sconfitta di El Alamein. “Vi stermineremo tutti, abbiamo avuto l’ordine” disse uno degli ufficiali. Da sempre c’era una mitragliatrice piantata in alto, accanto al campo. Guardavamo tutti in quella direzione…” Si sa che poi fece seguito una lunga sospensione. Si attendeva una telefonata con l’ordine definitivo. Ma ne arrivò un’altra che sospendeva l’esecuzione.
(Da E. Salerno, Uccideteli tutti. Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado, Milano, Il Saggiatore, 2008)
Da Civitella del Tronto a Bazzano
Al momento della deportazione, nel gennaio del 1942, alcuni ebrei libici del campo di Giado finiscono a Civitella del Tronto. Passano pochi mesi e i fascisti, riflettendo sulle necessità logistiche del conflitto, decidono di trasferire nuovamente quel gruppo di prigionieri verso nord. Nel mese di aprile, 57 di loro vengono condotti a Bazzano.
Questi 57 ebrei sono egiziani di Libia e dunque sudditi britannici. I fascisti li rinchiudono presso la cascina Bagantona, nelle campagne del Samoggia. Lì trascorrono diversi mesi in «internamento libero», senza sorveglianza interna, assistendo alla nascita di due bambini. Le famiglie possono vivere insieme e condurre semplici attività economiche per sostenersi, ma nessuno è autorizzato a uscire dalla struttura. Gli ebrei vivono in spazi circoscritti e controllati dall’esterno, isolati dalla comunità che li circonda. I fascisti, infatti, li diffidano dall’intraprendere relazioni con i bazzanesi. Eppure, anche nella guerra e nella dittatura, qualcuno trova il modo di andare loro incontro.
I prigionieri sono costretti a lottare con il freddo e a dividersi poco cibo, ma alcuni abitanti del paese decidono di aiutarli. Nella memoria di diversi bazzanesi s’imprime la simpatia per quel gruppo di stranieri, che non conoscono l’italiano e la cultura degli emiliani, ma condividono con loro la necessità di sopravvivere alla guerra.
Arrivano i nazisti: che fare?
Gli scenari mutano radicalmente dopo l’8 settembre 1943, quando i nazisti occupano l’Italia. In tanti luoghi della penisola i fascisti della Repubblica di Salò affiancano la Wehrmacht e le SS nelle ricerche degli ebrei. La “persecuzione dei diritti” lascia ormai spazio alla “persecuzione delle vite”. Le deportazioni nei campi dell’Europa centrale aumentano sensibilmente e vengono allestiti campi di transito. In quel contesto gli israeliti stranieri non possono avere scampo: le espulsioni si moltiplicano nel volgere di poche settimane.
Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre anche i libici della Bagantona sono costretti a salire su un treno. La prima destinazione è Fossoli di Carpi, ma si tratta solo di una tappa. Dalla Bassa modenese partono per il lager austriaco di Reichenau. Una storia tragica, pronta a scivolare verso un finale tanto scontato quanto drammatico. Finché arriva un colpo di scena.
I libici provenienti da Bazzano sono all’interno del lager da poco tempo, quando si diffonde la voce della gioia. Il governo britannico riesce a scambiarli con alcuni prigionieri tedeschi. Dopo qualche altra traversia, nell’estate del 1944, tutti gli ebrei passati dalla Bagantona ottengono definitivamente la libertà. Insieme a loro ci sono 44 israeliti provenienti da Camugnano. Il campo francese di Vittel diventa per loro l’anticamera della normalità.
Una storia a lieto fine
Nel 2007 l’ANPI di Bazzano pubblica lo studio di Gabriele Giunchi sul proprio sito web e convince l’Amministrazione comunale a sostenerne la stampa. Tre anni dopo Liliana Picciotto, responsabile della ricerca del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, parla di questo episodio nella pubblicazione dei suoi studi sul campo di Fossoli. Grazie ai contatti della studiosa milanese, i bazzanesi riescono a invitare Avraham Herzl Reginiano, uno degli ebrei passati dalla Bagantona. Il 12 maggio 2011 il sindaco gli concede la cittadinanza onoraria: la Deliberazione n. 54 del Consiglio Comunale inserisce così nei festeggiamenti per il centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale l’omaggio a uno dei bambini capaci di sopravvivere a una delle pagine più dolorose del Secolo Breve.
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27 Gennaio 2023 alle 10:40
Complimenti per aver ridato memoria alla prigionia ebraica nel “campo” di Bazzano. Per gravi impedimenti familiari ieri sera con dispiacere non ho potuto partecipare all’incontro in Rocca.
Tra i militari bazzanesi internati in Germania hai trovato traccia di Franco Monti e Carlo Balestri?
27 Gennaio 2023 alle 10:48
Grazie per l’apprezzamento e ti auguro che gli impedimenti possano risolversi in maniera felice. Nella ricerca di Doriano Depietri ho trovato i documenti di Carlo Balestri, ma non di Franco Monti (abbiamo un Adolfo Monti). Contiamo di riuscire a proseguire le indagini e siamo felici di ricevere segnalazioni; magari ci sentiamo prossimamente. Un caro saluto!