L’ospedale partigiano di Fontanaluccia nasce nell’estate del 1944, quando le formazioni della Resistenza modenese e reggiana danno vita alla zona libera di Montefiorino. Per poco meno di quaranta giorni, l’assenza dei nazisti e dei fascisti consente agli organizzatori della lotta armata di garantire le cure mediche ai combattenti feriti in condizioni di sicurezza.
L’assistenza si estende inoltre ai civili residenti nella zona di Frassinoro, il Comune a cui appartiene la frazione di Fontanaluccia. Con questa scelta gli organi della Resistenza manifestano la volontà di collaborare con la comunità. Non è un aspetto trascurabile. Anche se tra i “montanari” e i partigiani si accendono spesso tensioni e contrasti, gli uni e gli altri cercano a più riprese di stabilire una convivenza pacifica e vantaggiosa.
Sull’Appennino tosco-emiliano, la lotta di liberazione genera dunque rapporti di scambio e di conflitto tra i partigiani e i civili. Per capire la complessità di queste relazioni, è importante recuperare conoscenze su alcuni aspetti e vicende di vita quotidiana, rimasti a lungo nell’oscurità per l’esaltazione degli aspetti militari. L’esperienza dell’ospedale partigiano di Fontanaluccia e gli sforzi compiuti per assistere le persone bisognose di cure consentono di osservare la Resistenza da una prospettiva molto interessante. Cominciamo quindi il viaggio nel tempo, partendo dai primi passi dell’assistenza alle persone più sfortunate nella valle del Dolo.
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L’ospizio di don Mario Prandi a Fontanaluccia
Fontanaluccia sorge lungo la riva destra del Dolo e all’inizio degli anni Quaranta ha da sola più di 1.000 abitanti. È una terra di parrocchie e di miseria. Molti contadini sono piccoli proprietari terrieri, ma coltivano campi che li sfamano a malapena. Basta un’annata negativa per mettere in seria difficoltà parecchie famiglie.
In questo scenario le persone invalide sono ancora più in difficoltà che altrove, poiché le famiglie non riescono a prendersi cura di loro. Il parroco don Mario Prandi comprende la situazione e cerca di attivarsi per assistere gli invalidi. Nel 1941 la signora Leonilda Gigli decide di cedere alla parrocchia il fabbricato della vecchia osteria, accanto alla chiesa, chiedendo al sacerdote di prendersi cura delle sue due figlie, entrambe sordomute. Don Prandi istituisce così l’Ospizio di Santa Lucia, dove comincia ad assistere le persone invalide di tutta zona. Questo luogo di cura è mantenuto dalle offerte della popolazione montanara e si regge grazie all’attività delle suore Carmelitane Minori della Carità.
I primi passi della Resistenza nella valle del Dolo
Don Mario Prandi s’impegna dunque a più riprese nell’aiuto alle persone sofferenti, ma dalla primavera del 1943 esprime sempre più spesso critiche nei confronti del regime fascista. Quando l’armistizio dell’8 settembre getta l’Italia nel caos, il sacerdote accoglie due prigionieri di guerra britannici, fuggiti dal campo fascista di Fontanellato. Entrambi hanno bisogno di cure, quindi finiscono ricoverati all’ospizio di Fontanaluccia.
Il londinese R. D. Smith soffre di osteo-artrite all’articolazione tibio-tarsica della gamba sinistra. Grazie all’assistenza del dottor Pisani e del professor Pasquale Marconi, il militare riesce a superare i problemi e viene dimesso il 21 dicembre. Anche W. J. Bishop Durcot, affetto da esaurimento generale e deperimento organico, guarisce e lascia il luogo di cura il 2 dicembre 1943.
Nel frattempo Sante Passeri, custode della diga di Fontanaluccia, e Pasquale Ghini nascondono un buon numero di armi nei pressi dell’invaso. Le hanno abbandonate gli uomini della Difesa contraerea territoriale, fuggiti dopo l’annuncio dell’armistizio. L’occupazione nazista e la nascita della neofascista Repubblica sociale italiana costringono tuttavia tantissimi giovani alla scelta di sostenere o respingere la guerra di Hitler e Mussolini. Le minacce delle autorità fasciste rendono inoltre tale decisione ogni giorno più difficile…
Allora don Mario Prandi consiglia di non obbedire agli appelli del Duce. in quei difficili frangenti il sacerdote assiste e sostiene Pasquale Ghini, che organizza intorno a sé ragazzi sbandati e renitenti alla leva. Nei mesi successivi i partigiani di Fontanaluccia, Rovolo e Romanoro si riuniscono in un battaglione, comandato da Alpino Righi.
Il combattimento di Cerrè Sologno e l’assistenza ai feriti
Il 15 marzo 1944 la formazione partigiana di Giuseppe Barbolini è costretta a scontrarsi con le truppe tedesche a Cerrè Sologno. Dopo oltre quattro mesi di Resistenza, vissuta “alla macchia” e con la necessità di trovare l’appoggio delle comunità montanare, comincia il primo combattimento di rilievo lungo il confine tra gli Appennini reggiani e modenesi.
I partigiani riescono a respingere i nazisti, facendo fallire il loro attacco, ma accusano perdite importanti. I morti sono 7 e tra gli 11 feriti c’è proprio il comandante Barbolini, che ha un braccio gravemente lesionato. I compagni lo portano in salvo presso persone fidate, mentre la formazione si scioglie per scongiurare il pericolo delle spiate. Molti ragazzi di Sassuolo decidono però di restare in clandestinità agli ordini di Norma Barbolini, la sorella di Giuseppe, che non smette di lottare e mantiene unito il gruppo.
Intanto il comandante è affidato alle cure del professor Pasquale Marconi, medico e antifascista cattolico, che lo fa ricoverare sotto falso nome all’ospedale di Castelnovo ne’ Monti. Come molti altri partigiani, Barbolini viene assistito con cura dal personale sanitario, che lo protegge e gli consente di guarire. Di lì a pochi mesi Giuseppe tornerà alla guida della formazione, mantenendola fino alla Liberazione.
In una relazione, scritta nel dopoguerra, don Mario Prandi racconta che i primi partigiani feriti vengono assistiti «in case e capanne di fortuna». Col trascorrere dei mesi, tuttavia, crescono sia il numero dei combattenti, sia gli scontri con i nemici. Nello stesso periodo gli aviolanci degli Alleati forniscono ai medici della Resistenza farmaci e dispositivi di cura. Il professor Marconi istituisce dunque «una prima rudimentale infermeria a Roncopianigi, in val d’Asta», che viene poi trasferita a Gazzano.
La zona libera di Montefiorino e l’ospedale partigiano di Fontanaluccia
Alla fine di maggio le formazioni di Mario Ricci “Armando” raggiungono l’alta valle del Dolo. La Resistenza modenese e reggiana comincia allora una serie di attacchi decisivi nei confronti dei presidi fascisti. Nelle tre settimane successive i partigiani liberano i territori di Montefiorino, Polinago, Prignano sulla Secchia, Frassinoro, Ligonchio, Villa Minozzo e Toano. (Se ti interessa un approfondimento su questi fatti, lo trovi in questo post).
Il contesto della zona libera permette ai medici di organizzare meglio l’assistenza ai feriti. Nasce così l’ospedale partigiano di Fontanaluccia, che viene allestito nelle scuole della frazione di Frassinoro. La scelta cade su questa località per i buoni collegamenti con il capoluogo comunale e con la strada delle Radici. Le forze della Resistenza recuperano i letti e la biancheria presso gli alberghi di Piandelagotti e San Pellegrino. I farmaci e i materiali necessari per le cure provengono invece dagli aviolanci degli Alleati, ma anche da due farmacie già attive nella zona. I partigiani garantiscono infine gli approvvigionamenti alimentari, mettendo a disposizione 20 quintali di grano, e la difesa della struttura. Per quest’ultima ragione, una piccola formazione si stabilisce nelle case del Poggio di Montalbano.
La direzione dell’ospedale partigiano di Fontanaluccia è assunta dal medico sassolese Gerolamo Andreoli, esponente del Partito d’Azione. Lo assistono il dottor Angelo Comini e diversi studenti universitari. Partecipano inoltre alla cura dei degenti il professor Marconi, il dottor Poncemi e il dottor Pisani. Diverse partigiane affiancano le suore dell’ospizio nel prestare servizio come infermiere. Don Mario Prandi ricorda in particolare l’impegno di due donne, «la Margherita e la Vida». In luglio si aggiunge agli altri medici anche il dottor Luigi De Toffoli, ex vicereggente del fascio di Fanano, passato di buon grado al servizio della Resistenza.
«Sgombrate e nascondete i feriti!»
Domenica 30 luglio le forze armate naziste e le Brigate Nere riservano tuttavia un’amara sorpresa ai partigiani della zona libera. Tra la serata e la notte precedente parecchi reparti si sono organizzati per passare all’offensiva e cominciano un massiccio rastrellamento, chiamato Operazione Wallenstein III.
Don Mario Prandi racconta che proprio in quel giorno arrivano all’ospedale partigiano di Fontanaluccia diversi feriti, insieme alle notizie dell’attacco nemico. Il mattino successivo gli assistiti sono già più di 60. Molti degenti si allarmano, al pari dei medici. Intanto il comando generale cerca di capire come gestire una situazione estremamente difficile. Secondo don Prandi, Mario Ricci in persona fa visita all’ospedale, rassicurando tutti sulla tenuta delle formazioni. Il sacerdote aggiunge, tuttavia, un particolare che mette in cattiva luce il comandante delle formazioni partigiane. Avvicinati alcuni presenti, un «aiutante» di “Armando” avrebbe detto loro: «sgombrate e nascondete i feriti, perché non ce la facciamo a resistere».
Il racconto del sacerdote va letto alla luce della sua avversione nei confronti di Mario Ricci, esponente del Partito comunista e proveniente da un’altra realtà. Per comprendere ciò che accadde, occorre dunque raccogliere altre voci. Nella relazione del responsabile militare Mario Nardi si legge, ad esempio, che il comando assume provvedimenti specifici in relazione all’ospedale partigiano di Fontanaluccia, prescrivendo di «occultare i feriti nei boschi e trattenere in zona il solo personale indispensabile al loro vettovagliamento e cura».
Le difficoltà del ripiegamento
I racconti dei protagonisti permettono di capire che lo sganciamento e l’abbandono della zona libera si rivelano fin da subito operazioni molto delicate. Lo sfollamento dell’ospedale partigiano di Fontanaluccia comincia nel pomeriggio di lunedì 31 luglio. Secondo don Prandi si comincia con i meno gravi, che vengono incolonnati verso Rovolo. Questo fatto «semina il panico fra i ricoverati, la popolazione timorosa di rappresaglie e gli stessi partigiani».
Alle 17 non c’è più nessuno, ma restano ancora da trasportare e nascondere le persone che non riescono a muoversi sulle loro gambe. Sono una quindicina e la missione richiede un notevole sforzo. Si attivano dunque il professor Marconi, don Prandi, le suore, alcuni paesani e la Vida, «l’ammirevole infermiera slava, che non vuole abbandonare i feriti». Alcuni fra i più gravi sono nascosti nei fossati e nei boschi. Altri vengono portati in barella «a un gruppo di case isolate, ritenute fuori mano, dette Ca’ Bernardi».
Nella notte successiva i partigiani liberano la maggior parte dei prigionieri e ne fucilano tre, giudicati molto pericolosi. Il 1° agosto scorre via piuttosto tranquillo, ma si sente sempre «il rombo lontano dei pezzi d’artiglieria dei tedeschi». In serata don Prandi assiste i feriti, dando loro i sacramenti. Il parroco ricorda con affetto l’aiuto dell’infermiera Vida, che lo sostiene nella sua opera pur essendo «ebrea e convinta comunista».
Il dramma riprende nella mattina del 2 agosto, quando le truppe naziste arrivano a Fontanaluccia e distruggono l’ospedale partigiano. Don Prandi e alcuni paesani cercano di salvare le lenzuola e suppellettili, ma un sergente tedesco li costringe a rimettere ogni cosa all’interno dell’edificio, prima di appiccare il fuoco. Secondo il parroco, una pattuglia di militari passa accanto a Casa Bernardi. I soldati vedono i feriti, ma fanno finta di niente e passano oltre.
La riorganizzazione dell’assistenza ai feriti
L’Operazione Wallenstein III pone dunque fine alle vicende dell’ospedale partigiano di Fontanaluccia, ma non sospende le cure ai feriti e ai malati. Don Mario Prandi e i medici rimasti in zona si attivano per riorganizzare l’assistenza in luoghi sicuri. Temendo che Ca’ Bernardi sia una sistemazione facilmente individuabile, decidono di spostare i degenti più gravi «in una casa isolata fra i castagneti di Fontanaluccia, chiamata Le Pardelle».
Là dove c’erano una casa e un fienile, viene allestito un reparto chirurgico, nel quale i medici praticano piccoli interventi e trasfusioni di sangue. A volte i casi sono, però, troppo gravi per avere buon esito. Sotto i ferri muoiono infatti due partigiani in meno di un mese.
Sul finire dell’estate la mancanza d’acqua impone il trasporto dei feriti nella zona di Civago. Alcuni degenti finiscono però all’ospizio di Fontanaluccia, messo a disposizione da don Mario Prandi. Da quel momento il “vecchio” luogo di assistenza agli invalidi della montagna diventa «l’infermeria permanente della zona». Lì ricevono cure anche i fratelli Tommaso e Arnaldo Ballotta, partigiani castelfranchesi della Brigata Stella Rossa, rimasti feriti nel combattimento del 2 agosto al passo delle Forbici.
Nell’inverno successivo, uno dei più freddi e dei più duri di tutto il Novecento, l’ospizio di Fontanaluccia accoglie degenti dalle valli del Dolo, del Dragone e del Secchia. Oltre ai partigiani, i medici assistono 4 soldati russi e un cecoslovacco, passati alla Resistenza dopo aver abbandonato l’esercito tedesco. Anche due aviatori americani precipitati, i tenenti Douglas e Boat, ricevono cure nella struttura di don Mario Prandi.
Il secondo inverno dell’occupazione nazista e la nuova fase della zona libera
Dopo il rastrellamento di Montefiorino, nella zona di Fontanaluccia rimane sempre il battaglione Sacchetti, appartenente alla Brigata Bigi. È formato da giovani originari della valle del Dolo, quindi molto legati alle loro terre e alle comunità che le abitano. Col trascorrere delle settimane, la risalita del fronte costringe i nazisti a trincerarsi lungo la Linea Gotica. L’area della zona libera di Montefiorino perde così importanza militare. I nazisti non hanno le forze per tenerla occupata, mentre i fascisti temono la forza dei partigiani e preferiscono restare in pianura.
L’alta valle del Dolo entra così nella seconda fase della zona libera di Montefiorino. I partigiani controllano un territorio meno esteso rispetto a quello dell’estate precedente, ma riescono a riattivare gli organi di autogoverno municipale. Domenica 12 novembre a Fontanaluccia il sindaco Guidi autorizza lo svolgimento di elezioni a scheda segreta per scegliere i membri di una Commissione frazionale. Votano non meno di 70 persone, delle quali soltanto 2 affermano di non volere l’istituzione della Commissione. Sono eletti il presidente don Mario Prandi, il segretario Ferruccio Asti, Lodovico Bimbi, Amedeo Tazzioli, Elio Sassatelli, Gino Battani, Bruno Piacentini, Fortunato Giannasi ed Ettore Ghini. Tra il 19 novembre e l’11 febbraio 1945 la Commissione si riunisce 9 volte per concentrarsi sulle strade, sulle scuole, sui rifornimenti annonari e sull’assistenza ai cittadini.
Nella zona di Frassinoro la gestione delle istituzioni presenta tuttavia un problema: diversi eletti nelle commissioni frazionali hanno un passato nel Partito nazionale fascista. In quei frangenti non è semplice trovare persone capaci di muoversi tra le questioni istituzionali e al tempo stesso ostili all’ideologia che ha segnato la vita pubblica italiana nel ventennio precedente. Tra la Liberazione e il primo dopoguerra la transizione alla democrazia richiederà dunque tempo, energie e determinazione.
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